Tre voci del Tecnosciamanesimo: Intervista a Elena Borgna (parte 1)
Elena Borgna è una antropologa, regista e attrice attiva col gruppo di teatro sperimentale “Teatro selvatico”. Con questo gruppo fa continua ricerca, attivando laboratori e seminari. Il suo spettacolo “Voci dal Bosco“, attualmente in tour, ci riporta dentro i boschi per farci capire meglio quanto siamo figli della natura. Lo abbiamo visto questa estate nella pineta di Reggioli (SI) e ne siamo rimasti affascinati.
Anche questa intervista si divide in parti, tre per la precisione.
Ogni parte riguarda un tema: tecnologia, anima, teatro.
Iniziamo dalla tecnologia.
foto di @david_art
Elena che rapporto hai col cinema?
Penso di essere un amante del cinema. Mi piace moltissimo, sia andare al cinema che guardare film sulle piattaforme. Con mio padre soprattutto ho sempre avuto questo rapporto legato alla visione di film, soprattutto d’autore. Ammetto però di non essere una nerd del cinema perché non mi ricordo i registi, ma il cinema mi piace assolutamente.
Tu frequenti la sala?
Sì ma non vado moltissimo, anche perché per la maggior parte del tempo sono in giro.
Che rapporto hai con la tecnologia?
Sento di avere un rapporto di amore e odio. Mi piace tantissimo ciò che la tecnologia permette di fare, ma sento anche i limiti che pone… Quanto allontana dalla nostra naturalità. Gli strumenti tecnologici sono strumenti sempre molto potenti, e spesso ci manca un’educazione per adoperarli al meglio. Li sfruttiamo veramente per una piccola parte, che poi è la parte che ci dà più dipendenza, la parte che ci aggancia di più. Il casino poi è che si mischia tutto insieme… Il computer si mischia con il telefono… Il tempo lavorativo con il tempo di svago. Si apre il telefono e si hanno i due tempi mescolati. Questo, almeno a me, crea un senso di “grigiume” che mi spinge a usare sempre meno la tecnologia. Vorrei imparare a gestirla. Magari con degli slot orari in cui la uso e altri slot in cui non la uso. Una cosa molto bella che ho imparato stando in Teatro Selvatico è la mancanza di necessità di usare la tecnologia quando sto in mezzo alla natura con gli altri. Quando succede sto molto bene, e questo benessere succede proprio grazie a questo distacco. In questo modo riesco ad apprezzarla di più dopo, sfruttando realmente le sue potenzialità, il suo potere. Evito di diventare assuefatta e di usufruirne senza gioia.
Come percepisci il cinema?
Rispetto al teatro il cinema ha bisogno di molta più tecnologia, proprio per esistere. Sicuramente è un’unione tra arte e tecnologia… Mentre il teatro, come appunto succede in “Voci dal Bosco”, è qualcosa che si può fare anche solo con un essere umano. A teatro si può evitare del tutto la tecnologia. Ci sono attori, tipo Dario Fo, che stanno da soli sul palco ed è pura carne, pura natura. Il cinema invece ha bisogno delle macchine, ha bisogno di una tecnologia non solo intesa come macchinari ma anche come organizzazione per arrivare ad un obiettivo.
Questa dimensione ti fa un po’ allontanare?
Non è tanto il cinema che mi allontana per questo motivo, quanto è il teatro che mi attrae per l’altro. Forse proprio per il momento storico in cui sono cresciuta, momento in cui (come tuttora) la tecnologia permeava la realtà, sento che il teatro riesce a portarmi verso un modo di vivere differente, verso un altrove. Per questo motivo l’ho sempre sentito come un’alternativa, anche sacra. Un luogo in cui mi ritrovo in contatto con un passato anche antico. Tutto ciò però non vuole togliere al cinema la sua potenza.
Elena, se anche recitare è un tecnicismo si può dire che usi te stessa come uno strumento?
Noi sempre usiamo noi stessi come strumento, anche ora mentre io e te si parla stiamo usando noi stessi in questo modo. Io uso la mia gola per produrre suoni. In teatro si usano parti di noi che normalmente non vengono utilizzate e si dà loro pieno potere. Sono delle “parti” di noi, non sono “noi”. Nella catarsi teatrale a volte invece capitano momenti in cui diamo totalmente noi stessi. A seconda di come va quel preciso e unico momento, possiamo finire rinati o svuotati. Rinati dopo lo spettacolo grazie allo scambio energetico col pubblico, oppure svuotati perché abbiamo quasi dato via l’anima. Il teatro è potente e più lo si fa più si capisce.
Se il teatro è corpo, e se grazie al digitale torniamo al tatto, si può dire che siamo all’inizio di un’era sensoriale?
Questo dipende dalla capacità di ascolto che metteremo, dalle scelte che prenderemo. La sensorialità è sempre la stessa. Quanto metti attenzione nei tuoi sensi cambia quanto puoi percepire. Per esempio se si sta molto tempo con gli occhi chiusi e poi li si apre improvvisamente la luce è fortissima. Lo stesso vale per la sensorialità. Se si rallenta tantissimo si sente molto di più. La sensorialità c’è sempre. Quando ho fatto lo spettacolo nel bosco sicuramente l’uso della musica è stato molto interessante perché si sposava con ciò che fa Teatro Selvatico. È come usare sostanze… Sono porte che, aprendole, abbreviano. Avere, di sottofondo allo spettacolo, la musica in diretta in mezzo al bosco, averla proprio suonata in diretta con una tecnologia leggera, avvicina a quella sensazione di sensorialità. Lo spettacolo potrebbe esserci anche senza, ma la musica in quel modo aiuta soprattutto se si è distaccati da quella connessione con la natura, distaccati come sempre siamo.
La rivoluzione digitale sposa la natura?
Io penso di sì. Bisogna conoscerne le potenzialità. Ma il digitale è come una lente di ingrandimento. È come riconoscere una pianta di edera; una volta riconosciuta cosa possiamo farci? Il rischio della tecnologia è di reificare il mondo, invece che sentirlo come soggetto. Bisogna fare attenzione. Possiamo metterci in contatto con questa consapevolezza ma si corre sempre il rischio di una reificazione.
foto di @david_art
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