Tre voci del Tecnosciamanesimo: Intervista ad Alessandro Vullo (parte 1)
Alessandro Vullo ha da poco pubblicato il suo primo romanzo “Sette Lune” riguardo il suo viaggio di sei mesi in Messico. Il libro, edito da Prospero Editore, viene presentato in questo periodo in giro per l’Italia. Vullo è un ricercatore multidisciplinare ed ex fotografo con alcune pubblicazioni di reportage all’attivo. Ha da poco concluso un periodo di lavoro e ricerca con la Tribù Sanacore, e continua ad organizzare incontri focalizzati sullo scambio di saperi e crescita personale, nella sua Sicilia come in altre regioni. La sua prossima meta è il Colorado.
Questa è la prima parte di un’intervista in cui abbiamo chiesto di tecnologia e di anima.
In questa parte ci concentriamo sul primo tema.
Alessandro quale è il tuo rapporto col cinema?
Il mio è un rapporto di amore a singhiozzo. Non sono mai riuscito a dedicare parecchio tempo al cinema, ma l’ho amato molto, ed è stata una fonte di ispirazione enorme per il mio lavoro precedente, cioè il fotografo. Anzi spesso ho fatto ricerche iconografiche facendo screenshots delle sequenze che amavo, anziché usare progetti di altri fotografi. Comunque se prima ne guardavo più, ora ho sviluppato un disturbo dell’attenzione che non mi facilita stare fermo e concentrato a guardare un film.
E che rapporto hai con la tecnologia?
Con la tecnologia invece è veramente un rapporto di amore e odio. Non posso negare di essere figlio di un’era tecnologica, e una volta non avrei creduto in un fantascientifico futuro in cui poter fare le cose che oggi posso fare con uno smartphone. Ma sento anche essere spesso un po’ intrappolato col e nel telefono… Infatti, pur avendo avuto fin da bambino un computer in casa, ho sempre fatto un po’ di resistenza… . Quindi ho sempre usato la tecnologia, pur guardandola con sospetto. Sono anche il primo ad ammettere che per me la tecnologia è un mezzo che uso, e non sono mai stato preso da un interesse per scoprire i segreti di essa. Questo mi fa dire che potrei vivere senza, forse… Ma la contraddizione viene dal fatto che io ci ho campato di tecnologia, grazie alla fotografia. Un uso tecnologico che però resiste per esempio alla fotografia digitale. Infatti amo di più la fotografia analogica, in pellicola, l’uso della camera oscura…
Sette Lune è un libro molto interessante, si legge e ci si perde dentro, una perdita quasi salvifica. La difficoltà nel seguire tutti gli spostamenti fa pensare a “Sulla strada” di Kerouac (anche per la rispettosa quantità di riferimenti alle culture che incontri). Hai pensato a quel libro come riferimento?
Ho pensato a “Sulla strada” dopo. Mi è capitato di dover scrivere una breve presentazione per un evento dedicato a “Sette Lune”, una presentazione che poi non ho neanche seguito dato che sono andato a braccio. Ma quella cosa che ho scritto mi ha fatto ricordare in quel momento proprio “Sulla strada“. Perché ho capito che il tracciato era quello, anche se poi il mio libro si discostava leggermente. Infatti in quel libro Kerouac chiede a Cassady “Dove andiamo?” e l’altro risponde “Non lo so ma dobbiamo andare”. Cioè proprio ‘andare andare finché non ci sarà strada davanti a noi’. L’impronta era quella ma scrivendo mi sono accorto che il mio viaggio è sempre stato un andare per tornare. Ogni viaggio che ho fatto è sempre stato un viaggio per tornare verso la persona da cui mi sono allontanato di più nella mia vita: me stesso. Questo del Messico è stato il viaggio dei viaggi, non per le sue esperienze ma perché veramente sono riuscito a tornare a me. Quindi nella partenza c’era già il seme del ritorno. Una circolarità molto taoista. Nel ritorno c’è il seme di infinite partenze. Tecnicamente il viaggio è durato sei mesi, dal 9 gennaio 2022, ma per me non è ancora finito. Io non sono ancora tornato. Sto ancora in viaggio anche se sono ripartito molte volte nel frattempo. Poi, mentre scrivevo, ho pensato non tanto a Kerouac ma a Chatwin. Soprattutto al suo “Anatomia della irrequietezza“. In esso, nel suo stile tra saggio e romanzo, egli racconta vari episodi, cercando di rispondere alla domanda: perché l’essere umano da quando è sceso dagli alberi si è sempre mosso alla ricerca di qualcosa?
Quale è il messaggio del libro?
Il messaggio principale onestamente è quello di essere un memorandum per me stesso. Quando sono partito stavo “una pezza” e alla fine del viaggio stavo bene, forse meglio di quanto mai sia stato in vita mia. Il messaggio è quello, cioè veramente un memorandum utile a capire che, anche quando la notte si fa più scura, serve sempre ricordare che più scuro di mezzanotte non può fare (come diciamo in Sicilia). Si può sempre tornare a stare bene. Non è una formula magica o un piano di benessere da life coach, ma il libro è un insieme di info a cui si può attingere fuori e dentro di noi, un insieme di info a disposizione quando vogliamo. Quindi è un messaggio per me e per tutti i lettori. Per stare bene c’è solo da rimboccarsi le maniche e da mettersi nell’ascolto più profondo dell’anima, del sé più profondo, per tornare ad essere la persona giusta nel posto giusto. Si deve uscire dalla comfort zone. Infine per chi non mi conosce il libro può anche essere letto come guida per un viaggio in Messico, al di là della mia persona. Penso che queste siano le tre frecce del mio arco.
A parte la pioggia nel finale nel libro pare non esserci mai un problema, anzi spesso tutto sembra andare nel verso giusto. Si può dire che l’ostacolo che hai dovuto superare è stato te stesso?
Non è che sembra, mi è andato veramente tutto di lusso. Non c’è stato un contrattempo. Le varie situazioni “pericolose” si sono sempre risolte per il meglio. Ammetto di essere una persona tendenzialmente molto fortunata, dato che raramente mi succedono contrattempi e il viaggio in Messico non è stata un’eccezione. Ammetto pure che mi è stato detto di avere una buona stella molto grande che mi brilla sopra la testa. Quindi sì, tendenzialmente è andato tutto liscio e l’ostacolo più grande da superare ero proprio io, dato che sono sempre stato il peggior nemico di me stesso. Non tanto per blocchi o paura, ma avevo fatto tanto strada nell’allontanarmi dal mio “giusto sentiero”. Ero arrivato in regioni parecchio oscure dell’anima, e non ero sicuro di rimettermi in carreggiata. Sono partito quasi per disperazione, dopo un anno di tentativi di staccarmi da una vita che non mi faceva bene. Prima di partire avevo pure lasciato Milano e spesso stavo negli eco-villaggi dove sembravo macinare risultati. Ma dentro sapevo di avere la stessa merda di prima. Alla fine ho deciso di partire perché nel viaggio ho sempre ritrovato una dimensione in cui riesco a riprendere in mano la mia vita. Anche se prima di questo viaggio in particolare non sapevo se ce l’avrei fatta. Diciamo che ho fatto un “all in” senza una minima certezza. Stavo veramente giocando contro di me.
Nel libro varie volte descrivi procedimenti tecnici per fare cose. Cose utili per vivere, per mangiare, per guadagnare un minimo giusto per sostentarsi. Gli oggetti che usi, e i procedimenti, sono rudimentali e semplici, ma l’effetto è potente, dato che salvifico. Dobbiamo tornare ad una semplificazione tecnologica?
Gli oggetti che utilizzo e i procedimenti che attuo sono abbastanza semplici e rudimentali, ma hanno un effetto potente. Tutto questo però è contestuale a dove sono e a cosa sto facendo. Non saprei se gli stessi espedienti utili in Messico sarebbero utili in Europa. Però il concetto alla base potrebbe essere simile. Nel 2015 non avrei usato il condizionale… Oggi invece, per la piega che ho visto prendere alle cose, ho molti dubbi. Per esempio nel 2017 decisi di andare a fare la vendemmia in Francia, dove trovai un lavoro dietro l’altro venendo pagato in cash. Oggi molti miei amici vanno in Francia per lo stesso motivo ma è tutto più complicato. Bisogna iscriversi al Pole d’Emploi, devi fare la previdenza sociale, devi avere per forza un conto in banca francese. Penso che il mondo si stia parecchio tecnologizzando e complicando. Chi resta fuori fa un po’ fatica e ne farà sempre di più. Personalmente io ne farò, dato che sono totalmente refrattario alla digitalizzazione selvaggia. Quindi tornando agli espedienti usati in Messico posso dire che lì avevano lo stesso valore di quando giocando a Zelda trovavo l’artefatto magico che mi svoltava la vita. Ma ero in Messico, cioè in una società profondamente rurale, e frequentavo una meta-società che è quella dei viaggiatori, viaggiatori che poi viaggiano in un certo modo. Era facile produrre la crema di arachidi col cacao usando ingredienti che lì si trovano a niente e venderla bene. Da viaggiatore so che un barattolo di crema di arachidi con il cacao, se gestito bene, costa poco e dà energia per 10 giorni. È un bene che voglio come viaggiatore, quindi so che posso venderlo bene, e così è stato. Abbiamo venduto 10kg di roba in poche settimane. Lo stesso vale per i burgers vegani per fare un altro esempio. Per unire l’utile al dilettevole poi mi sono messo a scrivere articoli, ma sappiamo bene quanto i magazines possano pagare per gli articoli… Anche se quel poco andava bene per restare in Messico. C’è un proverbio siciliano che dice “ogni fegatino di mosca fa sostanza” che, tra le varie cose, mi fa pensare alla diversificazione (che per me è fondamentale dato che mi annoio facilmente). Avendo sempre due o tre piccole cose diverse da fare riuscivo a crearmi un giro decente di sostentamento. Un sostentamento che mi fa anche pensare ad un diverso tipo di economia, rispetto quella occidentale. Non c’è traccia di fiscalità. Si usa il baratto. É facile fare i mercatini. Io sono stato nel deserto del nord e ho preso pietre per portarle a sud dove non si trovano. A sud c’era invece il tizio che aveva l’ambra e la scambiava con le mie pietre. Per pochi pesos si compra dai contadini e si rivende ai turisti in spiaggia o negli ostelli. Non ci sono controlli, anzi siamo noi a far girare soldi in microsistemi che sono paralleli al macrosistema ufficiale.
Il Messico che hai incontrato è refrattario al digitale?
Assolutamente no, dato che anzi sono tutti incollati al telefono, come sono tutti incollati alle bottiglie di Coca Cola. Ma c’è una bella contraddizione… sono presi da qualunque diavoleria moderna, ma allo stesso tempo sono anche in qualche modo fuori da tutto questo presente tecnologico. Non è facile capire questa dicotomia, ma è come se coesistesse una dimensione di magia, di ritualità, di sacralità con tutta la nostra merda occidentale. Se devo pensare all’unione tra tecnologia e natura che ho visto in Messico penso prima ad un progetto di ecovillaggio come Meraki. Senza la tecnologia usata, dal fotovoltaico ai social, forse in tre anni Meraki non sarebbe diventata una cosa così articolata e potente. Quindi ben venga la tecnologia. Ma se andiamo verso l’assoluto, allora la tecnologia resta sempre quella cosa che ci porta ad usare i telefoni anche per fare questa intervista, ma per creare i telefoni si deve estrarre il coltan…. e quindi tutto si mostra per il suo vero aspetto… Capisci che… Penso che si stiano facendo passi contro questo meccanismo, ma non vedremo mai il trionfo della natura, non vedremo una bioelettricità presa dall’aria come diceva Tesla, o una energia pulita. Forse non la vedranno neanche i nostri nipoti. Questi passi però dicono che da qualche parte si deve cominciare, ne sono sicuro, e si deve continuare anche attraverso ovvie contraddizioni per arrivare ad un altro paradigma tecnologico. Questo penso sia possibile. Magari il Messico ci arriverà più tardi… Il Messico è più avanti in certe sfumature della spiritualità, tipo la vicinanza allo stato di natura. Io sono andato lì per ricordarmi queste cose, ricordarmi cosa vogliono dire parole come: sacro; rituale; dialogo con gli spiriti; dialogo col mio spirito; dialogo con lo spirito della natura; dialogo col grande mistero di cui parlano i Lakota. Per queste cose in Messico sono più avanti, ma non sono più avanti riguardo l’equilibrio. Anzi se c’è un posto poco equilibrato è proprio il Messico.
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